Meglio essere felici che infelici
di Antonietta Peluso, da VIVA un quindicinale di Fantastico!
Felicità s. f. [dal lat. felicĭtas -atis]. — Stato e sentimento di chi è felice.
La felicità è un concetto che riguarda tutti, sappiamo cos’è, la nostra intera vita ruota intorno al tentativo di raggiungerla. Dalla culla alla bara tutti vogliamo essere felici. Prova però a chiedere a qualcuno di descrivere a parole cosa sia per lui la felicità. Direbbe qualcosa del tipo gli obiettivi raggiunti, una vita agiata, il lavoro dei sogni, una relazione stabile, starsene in vacanza e via dicendo con una lista infinita di situazioni concrete che non rispondono alla domanda ma sono in grado di far passare un concetto molto chiaro: meglio essere felici che infelici, su questo siamo tutti d’accordo.
Cosa vuol dire essere felici? Le definizioni di felicità possono essere raggruppate in due categorie essenziali.
La prima categoria, espressione immediata della società attuale, considera felice una vita con meno disagi e svantaggi, una vita insomma priva di preoccupazioni. Una condizione che, nella realtà dei fatti, nessuno potrebbe ammettere di vivere o aver vissuto pienamente. Non io di certo. Del resto, è una linea di pensiero che poco mi convince: se davvero fossimo capaci di eliminare i disagi e gli ostacoli, non otterremmo la felicità, bensì la noia, come suggerisce Zygmunt Bauman in Meglio essere felici.
È felice una vita in cui ci annoia? Freud risponderebbe che lo stato di felicità è irrealizzabile e, se ciò non fosse, sarebbe un incubo. La felicità è un momento, per l’esattezza il momento in cui superiamo qualche particolare infelicità. In accordo con questo, una seconda linea di pensiero presuppone l’esigenza costante di una ricerca della felicità che non trova mai il suo finale compimento. È l’idea di una felicità che si divide in tanti piccoli momenti di felicità che vanno a incastrarsi nelle fratture di una vita imperfetta.
Un giornalista un giorno chiese a Goethe, ormai anziano, se avesse avuto una vita felice. «Sì ho avuto una vita molto felice» rispose, aggiungendo però che non riusciva a ricordare una singola settimana felice.
La felicità è felicità nonostante tutto. Non attende di liberarsi dei problemi, non può aspettare che le ansie facciano il proprio decorso, non sta nell’assenza di preoccupazioni, ma al contrario esiste nel superamento delle difficoltà affrontate.
Il tema della felicità ha acquisito negli ultimi anni una rilevanza enorme: tutti vogliono essere felici, lo dicevo in apertura. Pochi sanno come esserlo.
Come essere felici è certamente uno degli interrogativi esistenziali del nostro tempo e rischia di spianare la strada ai ciarlatani venditori di illusioni.
L’errore sta nel considerare la felicità come una condizione che riguarda solo il singolo e il suo mondo interiore, ignorando che essa è prima di tutto un costrutto sociale. La società crea l’immaginario di ciò che è considerato desiderabile e detta le possibilità per essere felici o infelici. Tutti vogliamo sperimentare la felicità, o anche solo vivere un momento felice, eppure la nostra effettiva capacità di esperirne è condizionata da due elementi: il destino e il carattere, entrambi socialmente influenzati. Destino è tutto ciò su cui non riusciamo a esercitare la nostra influenza, gli avvenimenti che ci sfuggono, il luogo in cui siamo nati, la famiglia che ci ha messo al mondo. Il carattere invece dipende da noi, possiamo controllarlo, possiamo provare a migliorarci. Destino e carattere sono strettamente collegati in quanto il destino apparecchia il ventaglio delle possibilità su cui è il carattere poi a operare le scelte.
Si cade però spesso nella trappola di mettere a confronto elementi diversi. La modernità ci ha detto che tutti gli esseri umani sono uguali, perciò, in nome di questa formale uguaglianza sociale e politica, quando lavoriamo al carattere compariamo noi stessi alle altre persone. Cerchiamo di trarre spunto dagli esempi offerti dagli altri, esaminiamo le loro vite. Se siamo uguali a loro, abbiamo il diritto di raggiungere il loro medesimo livello di felicità. Citando Max Scheler però, una società nella quale ciascuno ha diritto di considerarsi uguale a tutti gli altri è, di fatto, incapace di uguaglianza.
Non siamo tutti uguali. Il carattere entra spesso in conflitto con il destino e mentre crediamo di poter raggiungere qualcosa poi veniamo bloccati, impediti nel suo compimento. Il ventaglio di possibilità dispiegato avanti a noi diventa a volte il lago in cui Tantalo vuole dissetarsi, ma ogni volta che prova a godere di quell’acqua fresca gli viene tolta.
Il confronto tra l’enorme vantaggio di possibilità e la realtà di un controllo molto limitato sul destino di un individuo che manca di risorse, di abilità, di determinazione crea uno stato di infelicità, uno sconvolgimento, un colpo all’autostima. Siamo cresciuti col mito del self-made man, ci hanno raccontato che ognuno poteva diventare ciò che voleva, ma doveva volerlo davvero. E così di tanto in tanto ci prendiamo la colpa di non riuscire ad avere abbastanza carattere per realizzare il nostro destino. Ci sentiamo indegni, delle persone sbagliate che non sono in grado di fare ciò che fanno gli altri.
A farne le spese è la nostra identità che si fa sempre più fragile, mentre cerca di trovare una soluzione a un senso di deprivazione che negli ultimi anni è diventato più profondo. Fino a qualche decennio fa abbiamo combattuto, infatti, contro una discriminazione relativa, andando a confrontarci con persone vicine a noi e “alla nostra portata”. La felicità a cui aspiravamo era la felicità del collega, del vicino di casa, del nostro compagno di studi che raccoglieva più successi dei nostri. L’invidia non era mai rivolta a persone esageratamente ricche o famose, considerate troppo distanti dalla nostra condizione. Si accettava, al di là dalle implicazioni morali su cui non mi soffermo qui, l’idea di essere borghese o operaio, c’erano i divi e i fan. E ognuno sapeva bene quale fosse il suo setting e fin dove valeva la pena mettere in atto un meccanismo di emulazione
Oggi attraverso i social i confini si sono fatti molto labili, è possibile sbirciare nelle vite altrui, o almeno nella parte di vita che ci è messa a disposizione. Tutto sembra raggiungibile con il minimo sforzo. Si ignora a volta che molta di quella vita ostentata è pura finzione. Si ignora che il ventaglio di possibilità dispiegato davanti a noi non è uguale per tutti.
La felicità è in fin dei conti un fatto personale, che si struttura di volta in volta nel rapporto con gli altri, certo, ma soprattutto riuscendo a istaurare un dialogo con sé stessi. La felicità comincia a casa.
E se il destino non deve essere una scusa per arrendersi a una vita mediocre, non deve valere neanche il contrario: non ha senso sprecare una vita intera cercando di conformarsi a degli standard irraggiungibili.
Non siamo tutti uguali. Per fortuna.